TRIBUNALE DI TRENTO 
                        Esecuzioni mobiliari 
 
    Ordinanza di  rimessione  alla  Corte  Costituzionale,  ai  sensi
dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 
    Nel  procedimento  n.  780/16  promosso  da  M  M  -   creditrice
procedente  nei  confronti  di   L   P   -   debitore,   il   giudice
dell'esecuzione: 
      letti gli atti della procedura esecutiva di cui all'epigrafe; 
      sciogliendo la riserva presa alla udienza del 10 ottobre 2016; 
      rilevato che il credito di M M nei confronti di L P  -  ammonta
in base al precetto ad € 19.101,28 sulla base  della  sentenza  della
Corte d'appelo di Trento n. 90/13 Reg. Sent. 21/12 Reg.  Gen.  del  3
aprile 2013 depositato  il  10  aprile  2013  oltre  le  spese  della
procedura esecutiva; 
      rilevato che il terzo pignorato: G G - S.n.c., in data 4 agosto
2016, ha reso dichiarazione positiva del suo obbligo di corrispondere
al debitore uno stipendio mensile netto di circa € 900.00  (al  netto
delle ritenute previste dalla legge); 
      rilevato che deve applicarsi il regime di pignorabilita'  degli
stipendi ed altri emolumenti riguardanti il rapporto di lavoro; 
      rilevato che in base all'art. 545 c.p.c.  «Tali  somme  possono
essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti  allo
Stato, alle province ed ai comuni, ed  in  eguale  misura  per  ogni,
altro credito» e che da tale disposizione si ricava che lo  stipendio
e' pignorabile fino ad 1/5, e che un quinto dello  stipendio  ammonta
ad € 180,00 per cui resterebbero al debitore  €  720,00  per  la  sua
sopravvivenza (non risultando agli atti  che  abbia  altre  fonti  di
sostentamento); 
      rilevato  che  nel  decreto-legge  n.  16/2012  (cd.   «decreto
semplificazioni») convertito in legge n. 44/2012, l'art. 3, comma  5,
che ha aggiunto, nel  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.
602/1973,  in  materia  di   pignoramento   presso   terzi   disposto
dall'agente della riscossione per i tributi  dovuti  allo  Stato  (in
tema di pignoramenti Equitalia), l'art.  72-ter,  recante  il  titolo
«Limiti di pignorabilita'», secondo il  quale:  «Le  somme  dovute  a
titolo di stipendio, di salario o di  altre  indennita'  relative  al
rapporto di lavoro o di impegno, comprese quelle dovute  a  causa  di
licenziamento,   possono   essere   pignorate    dall'agente    della
riscossione: 
        a) in misura pari ad 1/10 per importi fino a € 2.500,00; 
        b) in misura pari ad 1/7  per  importi  da  €  2.500,00  a  €
5.000,00». 
    «Resta ferma la misura di cui all'art. 545, comma IV, c.p.c.,  se
le somme dovute  a  titolo  di  stipendio,  di  salario  o  di  altre
indennita' relative al rapporto di  lavoro  o  di  impiego,  comprese
quelle dovute a causa di licenziamento, superano i cinquemila euro»; 
      rilevato che, nella ipotesi di pignoramento della pensione,  la
Corte costituzionale con la nota sentenza 4 dicembre 2002, n. 506  in
merito  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale   sollevata
relativamente all'art. 128 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n.
1827, art. 69  della  legge  30  aprile  1969,  n.  153,  afferma  la
pignorabilita' per ogni credito, nei  modi  e  nei  limiti  stabiliti
dall'art. 545 c.p.c., solo di quella parte della pensione che non sia
necessaria a garantire al  pensionato  i  «mezzi  adeguati  alle  sue
esigenze di vita»; 
      rilevato che  in  relazione  alle  pensioni  la  soglia  minima
impignorabile non era stata originariamente definita dal  legislatore
ma era stata individuata in prima battuta  dalla  giurisprudenza  che
aveva  ritenuto  trattarsi  di  questione  di  merito  rimessa   alla
valutazione del giudice  della  esecuzione  (cfr.  Cass.  n.  6548/11
confermata da Cass. III civ. 18755/2013 «le soluzioni che si  riforma
alle normative la cui utilizzabilita' diretta era gia' stata  esclusa
dalla sentenza della Corte costituzionale, ed in  particolare  quella
che si rifa' alla pensione sociale, nonche' la soluzione che  applica
direttamente il trattamento minimo di cui alla legge n. 488 del 2001,
art. 38, commi 1 e 5 e della legge n. 289 del 2002, art. 39, comma 8,
presentano margini di opinabilita', poiche'  i  relativi  presupposti
paiono  tutti  orientati  esclusivamente  alle  specifiche  finalita'
previdenziali  o  assistenziali  dei  singoli  istituti  e  non  sono
suscettibili,  se  non  altro   in   via   immediata,   di   adeguata
generalizzazione, sicche' non solo, il trattamento minimo, ma neppure
l'importo della pensione  sociale  corrispondono  necessariamente  al
minimo indispensabile per  la  suissistenza  in  vita  in  condizioni
dignitose. Il principio di diritto che si intende  confermare  allora
non puoi che essere quello di cui alla sentenza appena citata, per il
quale l'indagine circa la sussistenza  o  l'entita'  della  parte  di
pensione necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati  alle
sue esigenze di vita, e come tale  legittimamente  assoggettabile  al
regime  di  assoluta  impignorabilita'  -  con  le  sole   eccezioni,
tassativamente  indicate,  di  crediti  qualificati  e'  rimessa,  in
difetto di interventi del legislatore al riguardo,  alla  valutazione
in  fatto  del  giudice  dell'esecuzione  ed  e'   incensurabile   in
cassazione se logicamente e congruamente motivata»; 
      rilevato  che   sul   punto   e'   successivamente   finalmente
intervenuto il legislatore modificando l'art. 545 c.p.c.  e  fissando
per le pensioni, al comma VII,  un  parametro  legale  corrispondente
«alla misura massima mensile dell'assegno  sociale,  aumentata  della
meta'» con cio'  disattendendo  le  precedenti  argomentazioni  della
giurisprudenza di legittimita' sia per aver ora  previsto  per  legge
tale  limite,  costituente  garanzia  di  un   minimo   assolutamente
impignorabile,  sia  per  averlo  determinato  con   riferimento   al
parametro della pensione sociale; 
      rilevato  che,  per  contro,  il  legislatore,  al  comma  VIII
dell'art. 545 c.p.c. non ha provveduto in modo analogo a disporre  un
generale minimo  assolutamente  impignorabile  per  le  retribuzioni,
prevedendo  un  regime  speciale  solo  per  i   pignoramenti   delle
retribuzioni effettuati sul conto corrente o postale; 
      rilevato che il pensionato, essendo  ritirato  dal  lavoro  non
deve farsi carico  delle  spese  necessarie  a  produrre  il  proprio
reddito, mentre il lavoratore si presuppone  che  debba  recarsi  con
mezzi propri sul luogo di lavoro,  vestirsi  in  modo  adeguato  alla
funzione svolta, utilizzare energie anche fisiche che richiedono  una
alimentazione piu' ricca di chi e' a riposo, e quindi sostenere delle
spese indispensabili alla produzione di un reddito,  oltre  a  quelle
necessarie   per   la   mera   sopravvivenza   (nutrirsi,   coprirsi,
riscaldarsi, assicurarsi un alloggio etc.); 
      ritenuto che anche per il lavoratore debba  essere  individuata
un minimo vitale indispensabile e  non  pignorabile.  che  non  possa
essere distolto dalla funzione primaria del salario,  che  e'  quella
appunto di consentire la sopravvivenza  e  l'utilizzo  delle  proprie
capacita' lavorative a chi abbia come sola risorsa il proprio lavoro; 
      ritenuto che appare illogico che tale minimo sia  previsto  per
le pensioni e non per le retribuzioni e altrettanto illogico  sarebbe
se questo secondo venisse determinato  secondo  criteri  difformi  da
quelli adottati nel VII  comma  per  le  pensioni  (come  nel  citato
esempio delle retribuzioni versate in conto corrente o postale per le
quali  comma  dell'art.  545  c.p.c.  prevede  che  «possono   essere
pignorate, per l'importo eccedente il  triplo  dell'assegno  sociale,
quando l'accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento; quando
l'accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, le
predette somme possono  essere  pignorate  nei  limiti  previsti  dal
terzo,  quarto,  quinto  e  settimo  comma,  nonche'  dalle  speciali
disposizioni di legge») alla luce delle comune funzione  sostanziale,
e  cioe'  di  rappresentare  il  mezzo  di  sostentamento  in  primis
alimentare del percipiente; 
      ritenuto   che   in   assoluto,   sotto   il   profilo    della
pignorabilita', il legislatore non  ha  escluso  l'equiparazione  del
trattamento delle pensioni a quello delle  retribuzioni,  atteso  che
tale parificazione avviene nel caso di retribuzioni versate in  conto
corrente in  forza  il  combinato  disposto  dei  commi  VII  e  VIII
dell'art. 545 c.p.c. e pertanto e' il  legislatore  stesso  ad  avere
apportato un vulnus al dogma  della  non  equiparabilita'  delle  due
fattispecie; 
      ritenuto che il legislatore, al comma VIII,  mediante  richiamo
al comma VII, ha esplicitamente parificato stipendi  e  pensioni  nel
disciplinare le somme di impignorabilita' in relazione all'ipotesi in
cui la pensione o lo stipendio vengano  pignorati  quando  sono  gia'
stati accreditati sul conto corrente con cio'  infrangendo  il  dogma
della non estensibilita' della limitazione del «minimo  vitale»  alla
pignorabilita' di versamenti di natura non pensionistica; 
      ritenuto dunque che, dopo la modifica dell'art. 545  c.p.c.  la
disparita' di trattamento non si pone piu' tra pensioni da un lato  e
retribuzioni dall'altro, ma tra pensioni e  retribuzioni  versate  in
conto corrente da  un  lato  e  retribuzioni  non  versate  in  conto
corrente dall'altro; 
      osservato che, nel tempo, la sostanziale identita' di  funzione
della pensione e della retribuzione o salario e'  stata  riconosciuta
sempre piu' spessa dalla giurisprudenza,  anche  in  applicazione  di
norme  internazionali  ed  europee,  per  cui  appare  necessario  un
ripensamento del complesso contesto normativo, anche alla luce  della
nuova normativa in tema di pignoramenti per crediti  tributari  dello
Stato  (decreto-legge  n.  16/2012  cd.   «decreto   semplificazioni»
convertito in legge n. 44/2012, art. 3, comma V, che ha aggiunto, nel
decreto del Presidente della Repubblica n. 602/1973,  l'art.  72-ter,
recante il titolo «Limiti di pignorabilita'»; 
      ritenuto la «discrezionalita'  del  legislatore»,  deve  essere
contenuta «nei limiti di  ragione»  e  pertanto,  in  assenza  di  un
fondamento  ragionevole  e  costituzionalmente  orientato  per   tale
disparita',  non  vi  e'   posto   per   la   «discrezionalita'   del
legislatore», le cui  decisioni  devono  anzi  essere  sottoposte  al
rigoroso  vaglio  costituzionale  della  corrispondenza  al   dettato
dell'art. 3 della Costituzione; 
      ritenuto  che  la  stessa  tecnica  legislativa   operata   dal
legislatore mediante il preciso richiamo al comma VII (pignorabilita'
delle  pensioni)  operato  dal  comma  VIII   (pignorabilita'   delle
retribuzioni) nell'ipotesi di retribuzioni versate in conto  corrente
realizza un parallelismo tra la pignorabilita' delle  retribuzioni  e
quella delle pensioni; 
      ritenuto che altresi' appare petizione di principio l'affermata
«specificita' della situazione del pensionato» atteso anzi che, nella
normalita' dei casi, i pensionati sono tali in quanto ex lavoratori e
tra le due condizioni vi e' un nesso comune per il quale di norma  la
pensione e' frutto e conseguenza  dell'esistenza  di  una  precedente
retribuzione, talche' tra la condizione di  lavoratore  e  quella  di
pensionato vi e' di norma un continuum; 
      ritenuto che e' concreto dunque il rischio di  arroccamento  su
posizioni  autoreferenziali  che  non  tengono  conto  della  realta'
sostanziale delle cose e che sono di difficile  comprensibilita'  per
l'insieme dei consociati, in quanto prive di un oggettivo fondamento; 
      ritenuto che la previsione del IV e del  VIII  comma  dell'art.
545 c.p.c. contrastano dunque  con  il  principio  costituzionale  di
eguaglianza e ragionevolezza sancito dall'art. 3  della  Costituzione
laddove non si estendono  tout  court  alle  retribuzioni  lo  stesso
generale minimo assolutamente impignorabile previsto per le  pensioni
e lo stesso meccanismo di determinazione del minimo stesso; 
      rilevato che tale profilo di incostituzionalita'  discende  non
tanto  in  via  diretta  dalla  violazione  dell'art.  36  Cost.   ma
direttamente dalla violazione dell'art. 3  Cost.  per  effetto  della
disparita' di trattamento tra i due regimi, per cui se in materia  di
pensioni  e'  affermato  il  principio  della   necessita'   di   una
salvaguardia minima del reddito  e  viene  stabilito  un  determinato
punto  di  equilibrio  tra  i  diritti   del   creditore   e   quelli
dell'esecutato gli stessi non possono non essere applicati  anche  in
materia  di  retribuzioni  data  la  medesima  funzione   delle   due
attribuzioni economiche; 
      ritenuto che, aperta per tale via una breccia nella  precedente
posizione della giurisprudenza costituzionale,  non  possa  a  questo
punto non riesaminarsi in via mediata anche  la  questione  sotto  il
profilo del rispetto del dettato dell'art. 36 Cost; 
      ritenuto che, se la retribuzione venisse ridotta al di sotto di
quel minimo vitale indispensabile  alla  sopravvivenza,  riconosciuto
per le pensioni, ne risulterebbe violato il  precetto  costituzionale
di cui all'art. 36 Cost. che prevede che la retribuzione debba essere
«in ogni caso sufficiente ad assicurare a se' ed  alla  famiglia  una
esistenza libera e dignitosa», oltre ai precetti di cui agli articoli
1,2,3,4 Cost.; 
      ritenuto  che  cio'  porterebbe  al  determinarsi  di   effetti
negativi per tutto il tessuto sociale (ad es. il  lavoratore  sarebbe
spinto ad orientarsi verso il mercato del lavoro irregolare,  sarebbe
spinto a comportamenti illegali, non potrebbe  far  fonte  ai  propri
obblighi nei confronti della famiglia, etc.); 
      rilevato che la questione  misura  della  retribuzione  non  ha
valenza esclusivamente  nei  rapporti  lavoratore-datore  di  lavoro,
senza che da  essa  scaturisca,  quindi,  vincolo  alcuno  per  terzi
estranei  a  tale  rapporto,  oltre  quello  -  frutto  di  razionale
«contemperamento dell'interesse del creditore con quello del debitore
che percepisca uno stipendio» (sentenze n. 20 del 1968 e 38 del 1970)
- del limite del quinto della retribuzione quale possibile oggetto di
pignoramento; 
      rilevato che una siffatta lettura contrasterebbe con  l'art.  1
il quale proclamando che «l'Italia  e'  una  Repubblica  fondata  sul
lavoro» quale principio fondante  dell'Ordinamento  attribuisce  alla
retribuzione e  alla  sua  determinazione  una  valenza  che  non  si
esaurisce all'ambito dei rapporti lavoratore-datore di lavoro; 
      rilevato altresi' che  tale  lettura  contrasta  con  l'art.  3
secondo comma  ove  viene  proclamato  il  principio  di  eguaglianza
sostanziale che, letto alla luce  dell'art.  1,  della  Costituzione,
pone la retribuzione e la questione della sua  quantificazione  quale
elemento centrate  nella  realizzazione  del  suddetto  principio  di
eguaglianza sostanziale con un preciso  obbligo  per  il  legislatore
ordinario di tutelare maggiormente i cittadini  che  percepiscono  le
retribuzioni piu' basse; 
      rilevato  infatti  che  il  legislatore  ordinario  ha   inteso
concretamente realizzare  il  principio  di  eguaglianza  sostanziale
mediante precise scelte legislative (quale la tassazione  progressiva
dei redditi, gli interventi a  favore  dei  cittadini  percipienti  i
redditi piu' bassi....) finalizzate anche a tutelare la dignita'  dei
lavoratori  e  basate  sulla  rilevazione  delle   disparita'   delle
retribuzioni  e   sull'esistenza   di   livelli   di   soglia   delle
retribuzioni; 
      rilevato che la dignita' del lavoratore, di cui  l'art.  36  e'
tutela, e' declinazione della generale dignita' tutelata dall'art.  3
che, in quanto norma generale, proclama un principio non si esaurisce
all'ambito dei rapporti lavoratore-datore di lavoro ma  e'  principio
fondamentale dell'Ordinamento; 
      considerato che la  pronuncia  del  2002  nel  riportarsi  alle
precedenti, si pone  in  un  contesto  economico  e  sociale  nonche'
normativo ben diverso da quello attuale, sia per quanto  riguarda  le
modifiche normative  introdotte  sul  regime  delle  pensioni  e  dei
contratti di lavoro, sia per i  mutamenti  della  giurisprudenza  che
sempre piu' e' andata nel senso di riconoscere identita' di  funzioni
allo stipendio ed alla pensione, sia per  i  dati  fattuali  relativi
alle potenzialita' di lavorare  e  di  produrre  reddito  a  cui  una
persona puo' aspirare. dato che la nostra societa' sta  attraversando
una crisi economica senza precedenti, ritenuta da molti esperti anche
peggiore della grande crisi del 1929,  situazione  che  determina  un
generalizzato impoverimento  dei  lavoratori  dovuto  alla  esiguita'
degli stipendi, ai mancati adeguamenti alla inflazione, alla  perdita
di potere di acquisto dei salari e degli stipendi in generale, etc.; 
      ritenuto che tali mutati fattori economici fanno si che,  anche
nel caso di specie, in mancanza di prova contraria, si debba ritenere
che l'unico reddito su cui il debitore possa far  conto  per  la  sua
sopravvivenza sia quello modestissimo sottoposto a pignoramento; 
      osservato che nel contesto  economico-sociale  attuale,  con  i
livelli di disoccupazione ormai raggiunti in  Italia,  con  la  crisi
economica che si e' determinata negli ultimi anni, le retribuzioni ed
i salari minimi (per lavori spesso precari o part-time)  come  quello
percepito dal debitore sono gia' ai limiti della  sussistenza  e  non
appare piu' frutto di un  razionate  «contemperamento  dell'interesse
del creditore con quello del debitore che percepisca  uno  stipendio»
consentire il pignoramento della retribuzione, seppure nel limite  di
un  quinto,  destinata  in  modo  essenziale  ed  imprescindibile   a
garantire  la  sopravvivenza  fisica  del   lavoratore   e   la   sua
possibilita' di svolgere le sue prestazioni lavorative sopportando  i
costi necessari a produrre la sua forza lavoro; 
      rilevato che per il 2016 l'assegno sociale ammonta a  €  448.07
- talche' il limite di impignorabilita' assoluta delle  pensioni,  ai
sensi del VII comma dell'art. 545 c.p.c. ammonta ad € 672,10; 
      rilevato che, la somma di € 720.00 che resterebbe  al  debitore
dedotto un quinto del  suo  stipendio,  appare  appena  superiore  al
minimo indispensabile ad un essere umano che lavora  per  sostentarsi
(dubitando che tale importo  possa  bastare  anche  a  sostentare  la
propria famiglia), tenuto conto anche del  fatto  che  quello  stesso
essere umano, per produrre quel reddito deve comunque sostenere delle
spese (per mangiare, vestirsi, recarsi sul luogo di lavoro etc.), per
cui e' impensabile che senza un reddito minimo  il  lavoratore  possa
comunque prestare la sua opera; 
      osservato che il comma  VIII  dell'art.  545  c.p.c.  distingue
l'ipotesi del pignoramento dello stipendio versato in conto  corrente
da quella dello stipendio pignorato alla fonte, presso il  datore  di
lavoro, richiamando per il primo il VII  comma  e  quindi  prevedendo
l'estensione a tale ipotesi dei limiti di pignorabilita' previsti per
le pensioni per le somme versate  dopo  il  pignoramento  mentre  nel
secondo caso devono applicarsi i limiti di cui al comma IV  senza  la
previsione di un minimo impignorabile; 
      rammentato che, prima della riforma  dell'art.  545  c.p.c.  il
problema  si  era  posto  in  termini  opposti  (seppur  parzialmente
diversi) quando all'attenzione della Suprema Corte era stata posta la
questione della disparita' di trattamento tra il  pignoramento  dello
stipendio alla fonte (con vincolo su un quinto dello stipendio) e  il
pignoramento effettuato sul conto corrente alimentato  esclusivamente
dallo stipendio (il cui saldo era totalmente assegnabile al creditore
procedente); 
      considerato che il sistema  presentava  caratteri  di  profonda
iniquita'   ed    ingiustizia    sociale,    oltre    che    storture
giuridico-costituzionali evidenti poiche', in sostanza, il limite  di
un quinto operava quando il pignoramento avveniva  direttamente  alla
fonte, ossia direttamente da parte dell'ente previdenziale del datare
di  lavoro,  mentre,  se  effettuato  in  un  secondo   momento,   il
pignorarnento dello stipendio, della pensione o di  altro  emolumento
pubblico presso la  banca  dove  il  dipendente  o  pensionato  aveva
depositato le somme ricevute mensilmente il limite di un  quinto  non
operava piu'; 
      ritenuto che in questo modo il limite  del  quinto  pignorabile
della  pensione  o  dello  stipendio  veniva   legalmente   aggirato,
consentendo  a  chi  doveva  riscuotere   un   credito   di   rifarsi
direttamente, senza alcun limite, sul denaro che il soggetto deteneva
sul conto, quindi anche su tutta la pensione o tutto lo  stipendio  e
tutto cio' in maniera arbitraria ed immotivata, tenendo conto che  un
conto corrente bancario o postale e' un prospetto  analitico  in  cui
ogni voce «in entrata» ed «in uscita» e' distinta  dall'altra,  oltre
che facilmente identificabile. 
      considerato  il  decreto  legge  n.   201/2011   (cd.   decreto
«Salva-Italia», successivamente convertito in legge n.  214/2011)  il
quale all'art. 12, comma II lett. c)., prevede che «lo stipendio,  la
pensione.   i   compensi   comunque   corrisposti   dalla    pubblica
amministrazione (...) e ogni altro  tipo  di  emolumento  a  chiunque
destinato, di importo superiore a cinquecento  euro,  debbono  essere
erogati con strumenti diversi dal  denaro  contante  ovvero  mediante
l'utilizzo di strumenti di pagamento elettronici bancari  o  postali,
Il limite di  importo  di  cui  al  periodo  precedente  puo'  essere
modificato con decreto del Ministero dell'economia e delle  finanze»,
limite poi elevato a € 1.000,00; 
      considerato che gli «strumenti di pagamento elettronici bancari
o postali» sono costituiti dal bonifico bancario o postale ovvero  il
bollettino postale (che presuppongono necessariamente l'esistenza  di
un conto corrente di appoggio); 
      ritenuto che quindi, che i percettori di superiori a € 1.000,00
non avevano altra scelta che l'apertura di un conto  corrente,  lungi
da essere cio' frutto di una libera decisione; 
      ricordato  che   in   giurisprudenza   solo   un   orientamento
minoritario dei Tribunali di merito  ha  rilevato  l'iniquita'  della
mancanza di limiti alla pignorabilita' delle somme versate  in  conto
corrente a titolo di pensione e/o  retribuzione  (Tribunale  Sulmona,
ordinanza 20 marzo 2013;  Tribunale  Cagliari,  ordinanza  13  aprile
2013; Tribunale Savona, ordinanza 2 gennaio 2014); 
      osservato che, posta la questione all'attenzione del  Tribunale
di Lecce, questi, con Ordinanza 12  febbraio  2014  ha  sollevato  la
questione di incostituzionalita' dell'art. 12 comma 2 lett. c)  legge
n. 214/2011, per violazione degli arti 38, e  3  della  Costituzione,
nella parte  in  cui  non  ha  previsto  che  siano  fatte  salve  le
limitazioni in materia di pignoramento di cui all'art. 545 c.p.c.; 
      osservato che la Corte Costituzionale, chiamata a  pronunciarsi
sulla legittimita' dell'art. 12. comma 2 del dl 201/2011  (convertito
in legge  n.  148/2011),  ha  dichiarato   l'inammissibilita'   della
questione quale conseguenza dall'errore di individuazione della norma
censurata  in  cui  e'  incorso  il  Tribunale  di   Lecce,   giudice
rimettente, il quale «non deve fare applicazione, nel caso di specie,
della norma impugnata - volta ad assicurare misure  di  tutela  della
sicurezza sociale e di  contrasto  alla  criminalita'  organizzata  -
bensi  delle  disposizioni  in  tema  di  conto  corrente,  le  quali
comportano - alla stregua della giurisprudenza  teste'  richiamata  -
l'assenza di  limiti  al  generale  principio  della  responsabilita'
patrimoniale  di  cui  all'art.  2740  del  codice   civile»   (Corte
costituzionale 15 maggio 2015 n. 85); 
      considerato che, con riferimento a queste tematiche,  la  Corte
costituzionale aveva gia' dichiarato l'illegittimita'  costituzionale
delle norme che ponevano  un  assoluto  divieto  alla  pignorabilita'
delle  pensioni  erogate  dall'INPS   (limitando   l'impignorabilita'
assoluta alla sola parte necessaria per soddisfare le esigenze minime
di  vita  del  pensionato)  e  che,  ulteriormente,  la  Corte  aveva
affermato  che  l'esclusione  della  pignorabilita'  dei  crediti  da
pensione non poteva riguardare l'intera somma, bensi' la  sola  parte
necessaria ad assicurare mezzi adeguati alle  esigenze  di  vita  dei
pensionati (mentre per la  pane  restante  continuano  a  valere  gli
ordinari limiti), mentre,  analoga  interpretazione  non  era  ancora
stata fatta con riguardo alla fattispecie oggetto dell'Ordinanza  del
Tribunale di Lecce, che riguarda le  somme  transitate  dal  soggetto
erogatore  dell'indennita'  di  disoccupazione  al   conto   corrente
dell'avente diritto; 
      considerato dunque che con sentenza 15 maggio  2015  n.  85  la
Corte costituzionale ha affermato che «se il credito per il saldo del
conto  corrente,  nonostante  sia   stato   alimentato   da   rimesse
pensionistiche,  non  gode,  allo  stato  della  legislazione,  della
impignorabilita' parziale relativa ai crediti da pensioni,  cio'  non
puo' precludere in radice la tutela dei principali bisogni  collegati
alle esigenze di vita del soggetto pignorato, (...) In tale contesto,
l'individuazione e  le  modalita'  di  salvaguardia  della  parte  di
pensione necessaria ad assicurare al beneficiario mezzi adeguati alle
sue  esigenze  di  vita  e'  riservata  alla   discrezionalita'   del
legislatore, il quale non puo' sottrarsi al compito di razionalizzare
il vigente quadro normativa in coerenza con i precetti  dell'art.  38
Cost»,  dichiarando  formalmente  inammissibile   la   questione   di
incostituzionalita', pur rilevando la  sussistenza  di  un  vuoto  di
tutela imputabile al legislatore, ed esortando quest'ultimo  a  porvi
rimedio, senza ricorrere ai ben piu'  incisivi  strumenti  dei  quali
dispone  per  garantire  immediatamente  il  pieno   rispetto   della
Costituzione; 
      considerato dunque che, riformando il comma VIII il legislatore
ha  inteso  correggere  tale  stortura  prevedendo  un   vincolo   di
impignorabilita' assoluta («il tripla dell'assegno sociale») sia  per
gli stipendi che per le pensioni, ma e' andato  oltre  prevedendo  un
regime di favore per le somme pervenute sul conto corrente  a  titolo
di retribuzione dopo la data del pignoramento; 
    considerato che appare contrario al principio di  eguaglianza  di
cui all'art. 3, Costituzione che il medesimo stipendio  sia  trattato
in modo diverso qualora il creditore pignorante decida  di  procedere
al pignoramento presso la fonte (il datore di  lavoro)  o  presso  la
destinazione (il  conto  corrente)  con  un  trattamento  decisamente
deteriore questa volta per la prima ipotesi; 
    considerato dunque che  la  questione  si  pone  ora  in  termini
diversi e con elementi di novita' (quale il novellato testo dell'art.
545 c.p.c.) rispetto al quesito posto alla Corte  costituzionale  dal
Tribunale di Lecce e  pertanto  la  questione  e'  da  ritenersi  non
manifestamente infondata; 
    rilevato  altresi'  che   tale   differenziazione,   come   detto
ontologicamente  priva  di  giustificazione,  appare   contraria   al
principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.,  atteso  che  il
prelievo e' maggiore proprio  nell'ipotesi  in  cui  il  pignoramento
colpisce tutte le somme dovute al lavoratore in costanza del rapporto
di  lavoro  subordinato  (quindi  con  una  maggior  possibilita'  di
soddisfare il proprio credito per il creditore procedente) rispetto a
quella in cui il vincolo si estende sulle ben piu' ridotte mensilita'
pervenute sul conto corrente nell'intervallo temporale  tra  la  data
del pignoramento e la  data  dell'assegnazione  operata  dal  giudice
dell'esecuzione; 
    ritenuto che I'VIII comma dell'art. 545 c.p.c. violi il principio
di eguaglianza non solo sotto  il  profilo  del  diverso  trattamento
riservato allo stesso stipendio se pignorato alla fonte o  sul  conto
corrente, ma anche  in  relazione  alla  diversa  prospettiva  di  un
confronto tra stipendi diversi ma omologhi  e  tuttavia  trattati  in
modo diseguale; 
    osservato che l'VIII comma dell'art. 545 c.p.c., prevede ora  che
«le somme dovute a titolo di  stipendio,  salario,  altre  indennita'
relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a
causa di licenziamento, ... nel caso di accredito su conto bancario o
postale intestato al debitore, possono essere pignorate.  ...  quando
l'accredito ha luogo alla data del  pignoramento  o  successivamente.
nei limiti previsti dal terzo, quarto,  quinto  e  settimo  comma»  e
pertanto che, considerato che  il  VII  comma  e'  norma  derogatoria
rispetto al IV comma e pertanto  su  questo  prevalente,  alle  somme
versate in conto corrente dalla  data  del  pignoramento  in  poi  si
devono applicare i limiti di pignorabilita' di cui al comma VII («non
possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla  misura
massima mensile dell'assegno sociale, aumentato della meta'»): 
      osservato  che  VIII   comma   dell'art.   545   c.p.c.   parla
genericamente di somme accreditate «successivamente, senza  prevedere
alcuna limitazione temporale e che quindi la norma si applica a tutte
le somme accreditate sul conto corrente a far data dal pignoramento; 
      considerato che per pacifico orientamento giurisprudenziale  di
merito e di legittimita' possono essere pignorate anche somme  ancora
non liquide ed esigibili e neppure allo  stato  esistenti  in  quanto
somme future a condizione che la  loro  venuta  ad  esistenza  appaia
alquanto probabile come in presenza di  un  contratto,  quale  e'  il
contratto generante un rapporto di lavoro subordinato; 
      considerato che l'art. 545  c.p.c.  deve  essere  visto  in  un
ottica sistemica rispetto all'insieme delle norme  in  vigore  ed  in
particolare rispetto  al  decreto  legge  n.  201/2011  (cd,  decreto
«Salva-Italia» successivamente convertito in legge n. 214/2011) ed in
particolare all'art. 12, comma II, lettera c); 
    ritenuto che quindi, allo stato, alla  luce  dell'obbligatorieta'
di tale modalita' di corresponsione degli stipendi si  e'  costituita
una vera e propria presunzione legale per cui gli stipendi  superiori
a € 1.000,00  non  possono  che  essere  versati  in  conto  corrente
(bancario o postale); 
    ritenuto dunque, per il combinato disposto dei commi  VII  e  VII
dell'art. 545 c.p.c. e del art. 12 del cd. decreto - Salva-Italia che
a tutte le retribuzioni a partire dall'importo di € 1.000,00  mensili
siano da applicare i limiti di impignorabilita' di cui al  VII  comma
dell'art. 545 c.p.c. («non possono essere pignorate per un  ammontare
corrispondente  alla  misura  massima  mensile  dell'assegno  sociale
aumentato della meta'»; 
    considerato che la predetta presunzione legale non opera  per  le
retribuzioni di importo fino a € 1.000,00 le quali  restano  soggette
ai limiti di cui al comma IV  dell'art.  545  c.p.c.  e  sono  quindi
sottoposte ad un prelievo del quinto del totale, senza la  previsione
del minimo impignorabile; 
    considerato che dunque, in concreto, vengono penalizzati  proprio
le retribuzioni piu' basse a favore di quelle piu' elevate; 
    rilevato dunque che subiscono un trattamento deteriore proprio le
retribuzioni piu' basse in violazione del  principio  di  eguaglianza
formale, di eguaglianza sostanziale,  di  ragionevolezza  ex  art.  3
della Costituzione; 
 
                               Osserva 
 
    Che  sussistono  seri  dubbi  sulla  legittimita'  costituzionale
dell'art. 545, IV comma c.p.c., VIII comma c.p.c., nella parte in cui
con riferimento alle «somme dovute dai privati a titolo di stipendio,
di salario o altre indennita' relative al rapporto  di  lavora  o  di
impiego comprese quelle dovute a  causa  di  licenziamento»  indicate
nel II comma, prevede che: «Tali somme possono essere pignorate nella
misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province ed
ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito» e non  prevede
invece un minimo impignorabile necessario a garantire  al  lavoratore
«mezzi adeguati alle sue esigenze di vita», ed una  retribuzione  «in
ogni caso sufficiente ad  assicurare  a  se'  ed  alla  famiglia  una
esistenza  libera  e  dignitosa»  con  particolare  riferimento  alle
esigenze di un reddito minimo che gli consenta di  sostenere  le  sue
spese minime necessarie al suo stesso sostentamento  in  vita  ed  in
condizioni di vita adeguate a consentirgli la stessa  produzione  del
reddito. 
    Detta disposizione si pone in contrasto con gli artt. 1, 2,  3  e
36, della Costituzione. 
    In relazione all'art. 1 della Corte  costituzionale  che  afferma
che la Repubblica e' «fondata sul lavoro», all'art. 2 che riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell'uomo e  richiede  l'adempimento
dei  doveri  inderogabili  di  solidarieta'  politica,  economica   e
sociale, all'art. 3 che sancisce il principio di eguaglianza  formale
e sostanziale ed il principio  di  ragionevolezza,  all'art.  36  che
prevede che la retribuzione deve essere  non  solo  commisurata  alla
quantita' e qualita' del lavoro prestato, ma anche  che  deve  essere
«in ogni caso sufficiente ad assicurare a se' ed  alla  famiglia  una
esistenza libera e dignitosa». 
    Al cittadino lavoratore deve essere garantito che il  frutto  del
suo lavoro, cioe' il suo stipendio o salario,  sia  destinato  almeno
nei  limiti  del  minimo  indispensabile,  al  soddisfacimento  delle
esigenze primarie di sopravvivenza sue e della famiglia, diversamente
ne risulterebbe violata sia la dignita' del  lavoro  come  fondamento
stesso della Repubblica, sia il diritto al lavoro (in quanto lavorare
puo' diventare economicamente non conveniente), sia il diritto a  che
la retribuzione percepita sia «in ogni caso sufficiente ad assicurare
a se' ed alla famiglia una esistenza libera a dignitosa». 
    Il principio di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3)  risulta
violato  in  relazione  al  diverso  trattamento  che   riguarda   il
pensionato, il quale, non prestando piu' attivita' lavorativa  riceve
una tutela della propria pensione (che puo' essere vista  anche  come
una retribuzione differita) diversa e maggiore di quella  che  riceve
un lavoratore attivo, il quale ha ancora piu'  necessita'  di  vedere
tutelato un limite vitale di sopravvivenza  oltre  il  quale  il  suo
stipendio  non  puo'  essere  assoggettato   a   pignoramento.   Tale
differenza, avuto riguardo ai cambiamenti  intervenuti  nel  contesto
normativa, nella giurisprudenza, nel tessuto sociale, nella economia,
non appare piu' giustificata da alcun principio di ragionevolezza. 
    Il principio di uguaglianza risulta anche violato in relazione al
diverso trattamento che riceve il debitore a seconda del credito  per
cui si  procede.  Se  il  credito  e'  erariale,  paradossalmente  il
debitore risulta maggiormente tutelato, quando invece le  ragioni  di
interesse pubblico e di quadro normativo  di  riferimento  dovrebbero
giustificare,  al  contrario,  un  miglior  trattamento  dei  crediti
erariali rispetto a quelli comuni. 
    Questo  remittente  non  ignora  le  precedenti  pronunce  (anche
recenti) della Corte costituzionale ma  ritiene  che  la  sentenza  3
dicembre 2015 n. 248 abbia omesso di pronunciarsi in  relazione  alla
questione principale, quale la contrarieta' della  norma  all'art.  3
Cost. Ritiene altresi' che la carenza di esame alla luce dell'art.  3
Cost. abbia indotto la Corte a esaminare la questione sollevata  solo
alla luce dell'art. 36 Cost.,  senza  che  questo  venisse  letto  in
relazione all'art. 3  Cost.  Ritiene  altresi'  che  l'Ordinanza  del
Tribunale  di  Viterbo  non  sottoponesse   all'esame   della   Corte
costituzionale l'equiparazione effettuata dal  comma  VIII  dell'art.
545 c.p.c. tra le  pensioni  e  gli  stipendi  accreditati  in  conto
corrente. Ritiene infine che nel complesso  la  sentenza  non  motivi
passaggi essenziali del suo ragionamento giuridico. 
    La questione e' rilevante nel giudizio in  corso  ai  fini  della
decisione - adattabile  anche  ex  officio  -  sulla  quantificazione
dell'importo che puo' essere assegnato al creditore. 
 
                          Osserva altresi' 
 
    Che  sussistono  seri  dubbi  sulla  legittimita'  costituzionale
dell'art. 545, VIII comma c.p.c., nella parte in cui prevede che  «Le
somme  dovute  a  titolo  di  stipendio,  salario,  altre  indennita'
relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a
causa di licenziamento, nonche' a titolo di pensione,  di  indennita'
che tengono luogo di pensione, di assegni di quiescenza. nel caso  di
accredito su conto bancario o postale intestato al debitore,  possono
essere pignorate, per  l'importo  eccedente  il  triplo  dell'assegno
sociale,  quando  l'accredito  ha  luogo   in   data   anteriore   al
pignoramento; 
    quando  l'accredito  ha  luogo  alla  data  del  pignoramento   o
successivamente, le  predette  somme  possono  essere  pignorate  nei
limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e  settimo  comma,  poiche'
dalle speciali disposizioni di  legge»  e  non  prevede  invece  tali
limitazioni per le retribuzioni non versate  in  conto  corrente  che
restano soggette alle limitazioni  di  cui  all'art.  545  c.p.c.  IV
comma; 
    Detta disposizione si pone in contrasto con gli artt. 1, 3 e  36,
della Costituzione. 
    In relazione all'art. 1 della Corte  costituzionale  che  afferma
che la Repubblica e' «fondata sul lavoro», all'art. 3 che sancisce il
principio di eguaglianza formale e sostanziale  ed  il  principio  di
ragionevolezza, all'art. 4 che riconosce e garantisce il  diritto  al
lavoro e il dovere di ogni cittadino  di  svolgere  una  attivita'  o
funzione che concorra  al  progresso  materiale  e  spirituale  della
societa', all'art. 36 che prevede che la retribuzione deve essere non
solo commisurata alla quantita' e qualita' del  lavoro  prestato,  ma
anche che deve essere «in ogni caso sufficiente ad assicurare  a  se'
ed alla famiglia una esistenza libera e dignitosa». 
    Il principio di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3)  risulta
violato in relazione al diverso trattamento da applicarsi al medesimo
reddito qualora venga pignorato alla fonte (ove il IV comma dell'art.
545 c.p.c. consente la pignorabitita'  di  un  quinto  calcolato  sul
totale) o una volta che e' stato accreditato in conto  corrente  dopo
il pignoramento (ove il combinato  disposto  dei  commi  VIII  e  VII
dell'art. 545 c.p.c. limita  la  base  di  calcolo  del  quinto  alla
differenza tra quanto percepito e il minimo vitale stabilito dal  VII
comma. differenza di trattamento che non appare giustificata da alcun
principio di  ragionevolezza  tenendo  presente  che  si  tratta  del
medesimo reddito. 
    Il principio di uguaglianza  formale  risulta  anche  violato  in
relazione al diverso trattamento che riceve il  debitore  percipiente
un reddito superiore alla somma  di  €  1.000,00  mensili  da  quello
riservato al debitore percipiente un reddito inferiore a tale soglia.
Per il per il combinato disposto dei commi VII e  VII  dell'art.  545
c.p.c. e dell'art. 12 del cd. decreto «Salva-Italia,  infatti,  tutte
le retribuzioni a partire dall'importo di  €  1.000,00  godono  della
presunzione legale che trattasi di retribuzioni pagate» con strumenti
diversi dal denaro contante ovvero mediante l'utilizzo  di  strumenti
di pagamento elettronici bancari o postalr e cioe' con  accredito  in
conto corrente. Alle stesse si applica  dunque  indifferentemente  il
combinato disposto dei commi VIII e VII dell'art 545 c.p.c.  l'addove
stabilisce che «le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre
indennita' relative al rapporto di  lavoro  o  di  impiego,  comprese
quelle dovute a causa di licenziamento, ... nel caso di accredito  su
conto bancario  o  postale  intestato  al  debitore.  possono  essere
pignorate, ... quando l'accredito ha luogo alla data del pignoramento
o successivamente, nei limiti previsti dal terzo,  quarto,  quinto  e
settimo camino, e cioe' per un quinto  calcolato  sull'eccedenza  del
minimo vitale  pari  ad  «un  ammontare  corrispondente  alla  misura
massima mensile dell'assegno sociale, aumentato della meta'»,  atteso
che il VII comma dell'art. 545  c.p.c.  richiede  esclusivamente  che
l'accredito avvenga «alla data del  pignoramento  o  successivamente»
senza altre limitazioni, il che consente di applicare  la  norma  non
solo  agli  accrediti  in  conto  corrente  sino   all'ordinanza   di
assegnazione, ma ad ogni forma di pagamento in conto  corrente  della
retribuzione successiva al pagamento. Non cosi' e' per il  lavoratore
che percepisca un reddito inferiore a  €  1.000.00  mensili,  per  il
quale il IV comma prevede  che  il  calcolo  del  quinto  pignorabile
avvenga sull'intero ammontare della retribuzione; 
    Tale   differenziazione   viola   altresi'   il   principio    di
ragionevolezza, in quanto non sussiste una rano  che  giustifichi  un
trattamento  differenziato  di  due  attri  buzion  i  patrimonial  i
entrambe quali &abili come retribuzione; 
    Tale differenziazione viola infine il  principio  di  eguaglianza
sostanziale di cui all'art. 3, Cost. il quale recita che «E'  compito
della  Repubblica  rimuovere  gli  ostacoli  di  ordine  economico  e
sociale, che, limitando di fatto  la  liberta'  e  l'eguaglianza  dei
cittadini, impediscono  il  pieno  sviluppo  della  persona  umana  e
l'effettiva partecipazione di nati  i  lavoratori  all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese»  vincolando  il  legislatore
ordinario a  legiferare  conferendo  una  particolare  protezione  ai
soggetti  economicamente  piu'   deboli   mentre   nella   situazione
illustrata avviene  paradossalmente  l'opposto  atteso  che  sono  le
retribuzioni piu' basse (quelle sino a € 999,00) a subire il prelievo
proporzionalmente maggiore; 
    E' dunque  paradossale  che  vengano  colpiti  piu'  duramente  i
debitori che dovrebbero essere maggiormente tutelati. 
    La questione e' anch'essa rilevante nel giudizio in corso ai fini
della decisione - adottabile anche ex officio - sulla quantificazione
dell'importo che puo' essere assegnato al creditore. 
    Si dispone che la cancelleria effettui le comunicazioni  previste
dalla legge.